Pubblichiamo un interessante articolo di Luigi Di Paola pubblicato sulla rivista Left.

 

Quale futuro per l’economia circolare

La pandemia ha messo in evidenza la fragilità del rapporto fra uomo e natura e le conseguenze catastrofiche che derivano da una sua alterazione. Forse fra i pochi aspetti positivi di questa tragedia planetaria c’è un rinnovato interesse per l’ambiente, sia pure ancora solo a livello potenziale e con tutte le contraddizioni e i limiti di una cultura disabituata a fare i conti con questi temi.

La necessità di far ripartire l’economia in un quadro di maggiore sostenibilità sta gettando le basi per il superamento della dicotomia fra ecologia, reddito e lavoro. Mai come in questo particolare momento della nostra storia recente si è manifestata in tutta la sua evidenza la connessione che lega questi tre elementi dentro la necessità di elaborare un nuovo modello di sviluppo.

A fronte (o forse si potrebbe dire anche a dispetto) di questa evidenza, la politica che governa il mondo intero, l’Europa e i singoli Stati sembrano a volte muoversi in direzione ostinatamente contraria. Come se le emissioni climalteranti non si fossero già manifestate in tutta la loro devastante brutalità, come se l’emergenza climatica non fosse già sufficientemente acclarata, come se la pandemia non ci avesse insegnato nulla.

La Cop 26 di Glasgow, più che fornire risposte, ha posto altre domande. Prima fra tutte come bloccare l’uso dei combustibili fossili per contenere il riscaldamento globale nel limite di 1,5 °C, questione vitale ma rimasta ancora di fatto irrisolta.

Allo stato attuale, le emissioni di CO2 di ogni abitante del pianeta sono mediamente doppie rispetto a quelle necessarie per traguardare questo obiettivo, anche se con forti sperequazioni fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Le emissioni climalteranti dell’1% della popolazione più ricca sono non doppie, ma 30 volte superiori a quelle considerate in linea con questo obiettivo. Per questo, la lotta all’inquinamento e all’emergenza climatica si configura sempre di più come lotta ai privilegi di pochi ai danni di molti.

In Europa, dopo mesi di polemiche molto accese, la Commissione ha pubblicato il testo della tassonomia verde che orienta il piano degli investimenti considerati sostenibili per i prossimi 30 anni. Fra questi, incredibilmente, rispuntano il nucleare e il gas.

Anche le cosiddette sezioni “resilienti” del Piano nazionale di ripresa e resilienza mostrano notevoli contraddizioni. Dei 68,6 miliardi di euro assegnati alla transizione ecologica, 5,27 miliardi di euro sono dedicati complessivamente allo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile e dell’economia circolare. Nello specifico, all’economia circolare (che è l’unico vero motore di una rivoluzione verde) sono stati assegnati appena 2,6 miliardi di euro. La maggior parte dei fondi sono dedicati alla efficienza energetica e alla ricerca di fonti di energia.

 

In linea con le indicazioni emerse in Europa, già da mesi gli esponenti della parte più “destra” del governo invocano ancora il ritorno al nucleare, come se non ci fossero stati due referendum vinti e innumerevoli battaglie che hanno sancito la definitiva uscita dell’Italia dall’energia atomica.

Il ministro che dovrebbe occuparsi di questi aspetti sembra essere molto più interessato alle questioni legate alla energia necessaria a garantire lo sviluppo dell’economia piuttosto che la sua sostenibilità.

Con la modifica costituzionale approvata a febbraio, la tutela dell’ambiente entra tra i principi fondamentali della Costituzione. Ma se il provvedimento non viene sostanziato con fatti concreti rimane uno sterile enunciato. La contraddizione fra il principio – ora anche costituzionale – che vieta di recare danno “alla salute” e “all’ambiente” e le recenti indicazioni in campo energetico appare in tutta la sua evidenza e relega le proposte di ritorno al nucleare nell’ambito delle attività anticostituzionali.

La mancanza di una vera politica di incentivo all’economia circolare di fatto è insostenibile sia a livello ecologico che economico e occupazionale. La scelta strategica di investire in grandi impianti di produzione energetica ad esempio (nucleare o gas che sia) non solo è anti-ecologica e antistorica, ma prevede investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro, con benefici molto contenuti in termini di reddito e occupazione. Di contro, la micro-produzione diffusa di energia, oltre ad essere più sostenibile dal punto di vista ambientale, comporta un maggior contributo in termini di forza lavoro e migliora i livelli di reddito e occupazione.

Le Comunità energetiche rinnovabili (alle quali il Pnrr assegna 2,2 miliardi di euro in sostegni da restituire a tasso zero) consentono ai cittadini di organizzarsi per diventare nel contempo produttori e consumatori di energia – concetto sintetizzato nel neologismo “prosumer” – innestando un nuovo ciclo produttivo e di consumi che andrà a creare bolle virtuose ad impatto zero. Lo sviluppo di tali progetti assume in questo momento anche una rilevanza politica ed economica particolare, se si considera quanto i prezzi delle materie prime energetiche siano “drogati” da una offerta fortemente concentrata e monopolista e soggetta ai capricci di una politica internazionale volubile e senza scrupoli. Questo solo per rimanere nell’ambito della produzione energetica, senza considerare l’importanza che il riciclo, il riuso e l’economia circolare nel suo complesso hanno sugli aspetti socio-ecologici di cui sopra. La stessa emergenza rifiuti, che in città come Roma rappresenta la madre di tutte le questioni ambientali, è figlia di una mancata adesione al modello di economia circolare che trasforma i rifiuti in risorse, riduce gli impatti negativi sull’ambiente e fa bene all’economia.

Ma l’Europa ha una posizione piuttosto contraddittoria nei confronti della questione ambientale. Se da un lato le istituzioni hanno posizioni timide rispetto alla emergenza climatica e inaccettabili rispetto al tema dell’energia, dall’altro è stato assegnato il Premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi che con le sue teorie sui sistemi complessi ha dimostrato scientificamente la necessità di agire con urgenza sui cambiamenti del clima, pena l’ineluttabilità di esiti catastrofici.

L’Europa, inoltre, finanzia programmi di sostegno all’agricoltura urbana e alle fattorie sociali attraverso progetti come Gardeniser che mira a sviluppare figure professionali in grado si facilitare lo sviluppo di orti urbani comunitari nelle città. Tali figure professionali sono già riconosciute e attive in molti Paesi europei e il prossimo passo sarà introdurle anche in Italia. La stessa Fao si occupa da anni dello sviluppo di orti urbani nelle grandi metropoli orientali allo scopo di garantire l’accesso al cibo delle fasce più povere della società.

In particolare, gli orti urbani sono presidi di auto-produzione e di auto-difesa in grado di aumentare il livello di consapevolezza, per quanto riguarda le contraddizioni del nostro modello di sviluppo, anche attraverso un approccio critico ai consumi. Il fenomeno degli orti urbani, che per esempio a Roma conta circa 200 progetti attivi ed è diventato una best practice nota a livello internazionale, ha effetti benefici di ritorno sia sull’ambiente che sulla socialità e sui percorsi di solidarietà ed inclusione. Per capire l’importanza di tale fenomeno, basti pensare che durante il primo lockdown totale, la pratica degli orti urbani nella Capitale è stata fra le pochissime attività consentite in quanto considerata strategica per la produzione alimentare.

Ma forse gli effetti rigenerativi più importanti si hanno in termini di cura e tutela del territorio, laddove l’ente pubblico non arriva. Per fare un confronto veloce è sufficiente considerare che a Roma – che pure è tra i Comuni più verdi di Europa – c’è un addetto del Servizio giardini ogni quattro ettari di verde pubblico; a Parigi ce ne sono quasi due per ogni ettaro. Roma, inoltre, è anche una città a forte vocazione turistica e quindi il patrimonio verde, considerato nella sua funzione di arredo urbano, oltre ad esercitare una importante funzione ambientale ha anche una significativa valenza economica.

Questo approccio proattivo della società civile nella gestione dei territori e dei beni comuni apporta benefici importanti per le comunità, ma denuncia anche, a livello locale, l’insensibilità della politica nei confronti dei territori nonché l’indignazione dei cittadini per il futuro che i grandi del mondo stanno riservando al nostro pianeta. È necessario produrre cultura e consapevolezza ambientalista per superare i limiti di una politica a dir poco disattenta e se non lo fanno i governi, allora deve farlo la popolazione civile, le associazioni ambientaliste impegnate a difesa dei loro territori e sostenute, quanto più possibile, dalle istituzioni di prossimità.

Forse più che di un “nuovo modello di sviluppo” bisognerebbe parlare di un “nuovo modello di progresso” basato su un patto di condivisione equa e sostenibile delle risorse e sottoscritto da tutti attori coinvolti, cittadinanza attiva, politica e istituzioni.

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