In previsione della manifestazione per il decennale dei referendum del 2011, considerata la rinnovata attualità delle questioni, il Circolo si è interrogato su acqua e nucleare, organizzando un incontro pubblico presso il Parco Garbatella. Ospiti Simona Savini del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e Roberto Scacchi Presidente di Legambiente Lazio.

 

Simona Savini apre ribadendo che quella di allora fu una vittoria storica che, seppur non spalancò le porte né alla ripubblicizzazione dell’acqua (unica eccezione la città di Napoli) né alla partecipazione popolare, fu determinante perché bloccò le privatizzazioni a pioggia che avrebbero interessato l’intero territorio nazionale nel giro di soli 2 – 3 anni.

Ed il risultato fu ancora più importante perché si veniva da un ventennio in cui privatizzare era la prassi cui nessuno si opponeva, vedendole come unica alternativa alla gestione della cosa pubblica, altrimenti abbandonata a sé stessa.

Altra cosa da segnalare è il fatto che la politica non seppe cogliere le potenzialità di quella partecipazione, né seppe ascoltare allora, e come continuò a non fare successivamente, la voce, i suggerimenti e le idee proposte da coloro che, conoscitori dei territori, in quei mesi si fecero portavoce attivi e propositivi, della “bontà” della cosa pubblica.

E le cose non sono diverse oggi: nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) i tentativi di privatizzazione sono mascherati da una terminologia vaga e poco chiara che parla di riforme strutturali, che altro non sono che delle privatizzazioni vere e proprie.

Altro successo del Forum fu il far stralciare dal decreto Madia (che per vizi suoi intrinsechi mai entrò in vigore) i servizi idrici. Il decreto incoraggiava le multiutility a diventare apparati sempre più giganteschi, prevedendo l’accorpamento di più regioni sotto un solo gestore. Nel centro Italia doveva essere ACEA che avrebbe riunito Lazio, Campania e Toscana.

Altro grandissimo problema è l’assoluta assenza della politica come ruolo di decisore e di garante. Sono le aziende, spesso quotate in borsa (come ACEA per es) a fare il bello e cattivo tempo, dettando le politiche tariffarie, mentre questo ruolo dovrebbe competere all’Agenzia Regolatoria.

La politica invece deve avere il coraggio e la volontà di fare scelte radicali, perché se non le fa la politica alla fine le fa il mercato.

L’ultimo esempio, che conferma come, a tutt’oggi, l’acqua non sia ancora considerata un bene essenziale è recentissimo: durante la pandemia il Forum chiese che venissero interrotti i distacchi idrici, e ciò avvenne ma lo ottenne solo dopo una durissima lotta e solo per il breve periodo di lockdown stretto, come se la pandemia fosse terminata nel maggio del 2020 e non ci fosse più la necessità di garantire a tutti l’igiene personale e dei luoghi in cui si vive o lavora. Era ovvio che le multiutility si sarebbero opposte in tutti i modi, ma ciò che “fece rumore” fu, invece, il silenzio delle istituzioni.

 

Per quel che riguarda nello specifico Roma, ovvero ACEA, come già detto, non ha interrotto i distacchi, non ha ridotto seriamente le perdite della rete, perché, anche se in parte qualcosa è stato fatto, gli interventi sono stati affrontati non come se ci trovassimo non negli anni 20 del III° millennio, ma negli anni 20 del 1900, ovvero senza considerare che, a causa dei cambiamenti climatici e della maggiore richiesta legate all’aumento della popolazione, le risorse idriche saranno sempre più scarse.

Invece di ridurre gli sprechi tramite il rinnovo dell’intera rete, ACEA sta costruendo un secondo potabilizzatore ancora più grande del primo. Il Forum non è contrario ai potabilizzatori, ma devono essere utilizzati nell’ottica di una rete duale, ovvero una rete parallela a quella dell’acqua potabile, e pertanto utilizzata per scopi non domestici.

Infine, occorre ricordare e sottolineare che la campagna referendaria fece tremare i mercati. Durante quel periodo le quotazioni in borsa delle aziende subirono forti oscillazioni e questo testimonia che, in quel frangente, Davide mise davvero paura a Golia. E questo dobbiamo tenerlo bene a mente sempre e soprattutto ora che si rende necessario, come e forse più di allora, rifare rete per contrastare tutte quelle politiche che, non tutelando ai beni comuni, non tutelano il Bene Comune.

 

Roberto Scacchi si ricollega al discorso sull’acqua dando i dati della dispersione della risorsa idrica nel Lazio nel 2011: Roma 26% (gestore ACEA) – Frosinone 31% (gestore ACEA) – Latina 60% (gestore ACQUA LATINA) e nel tempo, invece di migliorare, i dati peggiorano. Già a partire dal 2017 a Roma si passa al 46%, a Frosinone a circa l’80% e a Latina si arriva oltre il 70%. E che la volontà non sia quella di “correre ai ripari”, sia in senso lato che in senso reale, è attestata dal fatto che Acea, per affrontare il problema delle perdite non solo abbia deciso sopperire alle prossime crisi idriche puntando sulla costruzione di un secondo potabilizzatore sul Tevere, ma anche dal fatto che nel PNRR ci sono soldi stanziati per la realizzazione del raddoppio dell’acquedotto del Peschiera-Le Capore. Cosa quanto mai grave, perché già in condizioni “normali” la sottrazione di acqua dai fiumi Peschiera e Farfa è troppo ingente e un aumento del prelievo andrebbe non solo a compromettere ulteriormente l’ecosistema fluviale, ma anche a ricadere pesantemente sugli abitanti della zona e delle loro attività agricole. Inoltre, se si guarda avanti alla futura carenza di acqua potabile, non solo si dovrebbe intervenire nel riparare la rete, ma sarebbe opportuno fare anche la separazione fra acque vergini e acque potabilizzate.

Passando al nucleare, il referendum del 2011 ebbe il merito di fermare la follia di quella che veniva definita come la II^ era nucleare italiana, ma ciò che accadde dopo il voto fu, semplicemente, il “congelamento” dello status quo.

Ovvero si fermò sì il nucleare, ma venne accantonata anche la gestione delle scorie, ad oggi stoccate in semplici bidoni in luoghi insicuri, sia perché privi delle caratteristiche strutturali per contenerle sia perché spesso situati in zone a forte rischio idrogeologico, in quanto costruiti in vicinanza del mare, come la centrale di Montalto Di Castro e quella di Latina, o di fiumi, come quella di Saluggia lungo la Dora Baltea, dove si trovano l’80-90% delle scorie radioattive d’Italia. E questo della gestione è un discorso importante non solo per le scorie provenienti dall’attività delle vecchie centrali, ma anche per quelle che si continuano a produrre in ben 95 zone in Italia, ovvero in tutte quelle strutture che hanno apparecchi a raggi X, TAC e Risonanze Magnetiche, senza contare “TAPIRO”, il reattore nucleare di ricerca situato presso il Centro Ricerche Casaccia dell’ENEA, che è in attività e che ha, fino ad oggi, prodotto 400 fusti stoccati in prossimità del fiume Arrone.

La situazione italiana è comunque rosea rispetto agli altri paesi, perché, avendo bloccato l’attività delle centrali nucleari, deteniamo solo 1,1% delle scorie di tutta Europa e che sono esclusivamente a media e bassa radioattività.

La Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI), ovvero la mappa dei siti per la realizzazione del Deposito Nucleare Unico (tenuta nascosta da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 6 anni e mezzo) individua 67 luoghi, potenzialmente idonei, individuati in sette regioni: Piemonte, Toscana, Lazio, Basilicata, Puglia, Sardegna e Sicilia. Per quel che riguarda il Lazio i siti candidati sono tutti nel Viterbese.

Ma ciò che è oltremodo significativo è che non solo nessuno si occupò di trovare una soluzione alla gestione delle scorie ma non avvenne neanche ciò che coloro che si batterono per l’uscita definitiva dall’atomo auspicavano: il balzo in avanti dell’energia verde. Non seguì cioè la realizzazione degli impianti che avrebbero permesso l’abbandono delle fonti fossili ed il passaggio a quelle rinnovabili.

C’è poi la questione delle centrali a carbone. La centrale di Civitavecchia (l’ultima nata in Italia, inaugurata non nell’800 ma a luglio 2008!) è al I° posto in Italia per emissioni di gas climalteranti (ed è fra le prime dieci più inquinanti d’Europa) con 8.1 milioni di tonnellate di CO2 prodotte all’anno che rappresentano il 78,5% di emissioni per la produzione energetica da fonti fossili di tutto il Lazio. E quello che si sta ipotizzando per Civitavecchia, come pure per la centrale a carbone di Montalto di Castro (sempre dell’ENEL) è il loro rilancio mediante “riconversione” dal carbone all’utilizzo dell’olio misto combustibile (olio- gas- metano). Peccato che sempre di fonti fossili si tratta, mentre sarebbe auspicabile riconvertire quei luoghi in poli delle rinnovabili, con torri eoliche, fotovoltaico e sistemi di accumulo in grado di rispondere alle esigenze di produzione.

Sul fronte rifiuti a Roma negli ultimi 4 anni e mezzo nulla è cambiato:  la raccolta differenziata è aumentata di 1 solo punto % passando dal 45% al 46%, mentre a livello nazionale si è arrivati al 60%.

Il problema della capitale è l’assoluta carenza di impianti. Ma non solo, non sono neanche aumentate le isole ecologiche: 13 erano e 13 sono rimaste e, come se non bastasse, a peggiorare le cose si è aggiunta la chiusura di diversi impianti TMB, di alcune discariche provinciali, mentre 2 delle esperienze di raccolta differenziata “porta a porta”, che erano ormai state ben accolte dalla cittadinanza sono state interrotte, determinando il ritorno ai cassonetti stradali.

E tutto questo in una città in cui vengono prodotte 980 mila tonnellate/anno di rifiuti.

A chi dice che per gestire l’emergenza rifiuti a Roma occorre realizzare i termovalorizzatori occorre ricordare che a San Vittore sono presenti addirittura 3 linee, gestite dall’ACEA, che basterebbero per gestire tutta questa massa di rifiuti e che, ovviamente, sarebbero pure in surplus se venisse messo in piedi il sistema di porta a porta spinto.

E ora che siamo a rischio collasso, invece di spingere in tal senso, si ritorna a parlare di discarica, che sebbene cercano di “vendere” come discarica di servizio, sarà una discarica e basta, visto e considerato che non ci sono in campo appunto i progetti per la realizzazione di tutti quegli impianti necessari per il recupero ed il riciclo dei materiali.

I cittadini romani pagano, per un servizio pessimo, una delle tariffe più alte d’Italia e il motivo per cui la tariffa è così alta è legato al fatto che, non avendo impianti, siamo costretti a conferire i vari materiali in altre regioni d’Italia, se non all’estero.

Ciò che purtroppo non si riesce a far comprendere è che il rifiuto da problema potrebbe diventare una ricchezza.

E che questo sia purtroppo vero lo conferma l’assoluto muro che c’è nei confronti del vuoto a rendere. La legislazione italiana ha infatti introdotto i Consorzi per il riciclaggio dei materiali, che sono più interessati alla “quantità”, allo scopo di immettere nel mercato nuovi prodotti derivante dalla lavorazione di quelli recuperati, piuttosto che al riutilizzo degli oggetti. Per questo oppongono una strenua resistenza al cambio di rotta.

Per quel che riguarda invece la questione imballaggi, la situazione sta pian piano migliorando, perché se la politica non si muove molto in tal senso, piccoli cambiamenti li sta facendo il mercato producendo imballaggi sempre più con materiali biodegradabili e/o compostabili.

Altra notizia estremamente positiva e che  la legge che vieta la plastica monouso entra in vigore da oggi (07.06.2021).

Vedremo se verrà applicata!!!

 

Alla luce di queste osservazioni  si rende urgente riprendere il discorso e creare di nuovo un fronte comune per opporsi a ciò che se passerà farà, come sempre, l’interesse di pochi mentre ricadrà sulle spalle dei più.

 

C’ERAVAMO ALLORA E TORNEREMO AD ESSERCI!

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