Buon Primo Maggio a tutte e tutti.
Un Primo Maggio diverso, silenzioso, strano sotto il cielo plumbeo della pandemia. Senza scampagnate, con il “Concertone” in TV manco fosse Sanremo. Qualcuno uscirà comunque, alla spicciolata come è necessario che sia, evitando (speriamo) gli assembramenti. Guardando tristemente da lontano questo Primo Maggio triste. Altri lo vivranno come un sabato qualunque, a casa a sbrigar faccende o a guardare la TV, magari Sanremo – ops, scusate, il Concertone.
In fondo il 25 Aprile appena trascorso è stato meno strano, e meno silenzioso. Alcuni, qui a Roma, hanno portato corone di fiori ai martiri della Resistenza, condividendo le foto sui social; altri si sono riuniti comunque, con distanze e mascherine, a Porta San Paolo; la memoria è stata celebrata con iniziative, trasmissioni, dibattiti in streaming; ci si è divisi e scontrati, com’è ovvio in un paese che dopo 76 anni pullula ancora, “inspiegabilmente”, di nostalgici del duce e delle sue bande nere, e di loro aspiranti emuli in sedicesimo, di ambo i sessi.
Insomma un 25 Aprile quasi normale, di fronte al quale il silenzio di questo Primo Maggio anomalo ci parla, se lo vogliamo ascoltare.
Ci parla dell’anomalia dei tanti primimaggi precedenti, solo apparentemente meno silenziosi, più vivi, più “festa”. Una festa comunque grandiosa e quindi, nei fatti, non dimenticata. Piazza San Giovanni piena da scoppiare, chiunque ci fosse a cantare sul palco, non era Sanremo; così come come ricordo il Parco degli Acquedotti pullulare di tovaglie e di palloni, pullulare di popolo. Ecco, dei primimaggi degli anni scorsi, gli unici conosciuti da chi ha meno di quarant’anni, non si può certo negare che fossero grandi feste di popolo, di un popolo che a volte solo in quella occasioni sembrava manifestarsi, gridare l’evidenza che l’umanità non è e non può essere solo un pulviscolo di individui isolati, alacremente dediti alla nobile arte di farsi gli affaracci sua.
Insomma questo silenzio – come sempre il silenzio fa – ci parla e ci interroga. Forse è invece un’occasione irripetibile per farsi domande da cui continuiamo a fuggire da quarant’anni.
Ad esempio, come ha fatto il Primo Maggio, che ormai solo le persone di una certa età ricordano, a diventare il “primomaggio” .
Lo stesso si potrebbe dire della parola sinistra, così consunta che forse occorrerebbe inventarne una nuova, o di altre parole ben più altisonanti ma altrettanto sciupate: libertà, dignità, verità, democrazia.
E soprattutto, cosa siamo noi oggi, rispetto a quello che saremmo potuti, che potremmo essere. Che neanche più ricordiamo di aver sognato di essere, e forse di esserci anche, in parte, riusciti.

“Vieni o Maggio, ti aspettan le genti
Ti sorridono i liberi cuori
Dolce Pasqua dei lavoratori
Vieni e splendi alla gloria del sol”
[Pietro Gori, 1892]

Bene, in quei Primi Maggi fino a quarant’anni fa, non si andava solo a un corteo concluso da un comizio sindacale. Si cantava,si discuteva, si immaginava il futuro. Ci si ritrovava, a milioni, parte di una lotta. Ci si divideva, giustamente, come ancora oggi il 25 Aprile. Ci si divideva tra sfruttatori e sfruttati.
Poi a un certo punto (erano gli anni del Compromesso Storico) qualcuno ha trovato più pudico rinominare la Festa dei Lavoratori in Festa del Lavoro, al punto che altri hanno ritenuto più degno e opportuno festeggiare invece il Non-Lavoro (era il 1977). Seguirono gli anni violenti e torbidi che sappiamo (o crediamo di sapere) da cui emerse un’Italia diversa: non più sfruttati né sfruttatori, tutti imprenditori di se stessi o appassionatamente sulla stessa barca del proprio “datore di lavoro” (perche mai chiamarlo padrone, poveraccio, quando tante volte è un ex operaio che si è aperto la ditta andando in pensione e mi ha donato questa merce preziosa che è l’occupazione) a sfidare le tempeste dei mercati internazionali. E poi la sera, tutti in discoteca a ballare, ma senza toccarsi, ognuno per conto suo. Un’Italia senza cellulare e senza computer, ma terribilmente simile a quella di oggi. Pardon, di ieri. Esattamente di un anno e tre mesi fa.

Eh sì perché la pandemia ha squarciato il velo, e questo primo maggio silenzioso ne è la rappresentazione più teatrale – per chi sa vedere.
Oggi tocchiamo con mano quanto quel sogno di benessere individuale – il sogno degli anni Ottanta, il sogno Americano – fosse fragile e inconsistente. Non è solo la pandemia, questa pandemia. Altri mostri ci aspettano dietro l’angolo – primo tra tutti, il riscaldamento globale.

Oggi sperimentiamo quanto è misera la vita senza gli altri, senza i loro abbracci, e senza un’idea di futuro. Facciamo due più due: com’è misera la vita senza un futuro sognato e costruito insieme agli altri. Come è misero l’Io nell’oblio del Noi.
Oggi i lavoratori autonomi, i baristi, i ristoratori, gli albergatori assistono impotenti al crollo del loro sogno di benessere. Più di tutti gli artisti, fino a ieri quantomeno speranzosi di realizzare se stessi al massimo grado attraverso il lavoro, grazie al benessere, al mercato e alla loro individuale determinazione. I pubblici dipendenti, soprattutto il personale della sanità e della scuola, toccano con mano (e l’Italia intera, e il mondo intero con loro) quanto sia essenziale, indispensabile la loro funzione. E quanto decenni di politiche volte a tutelare e a incrementare la redditività dei capitali li abbiano ridotti a sfruttati, a schiavi salariati. Succedeva già prima, ma si vedeva di meno.
E i salariati veri e propri? Quando non in cassa integrazione, sperimentano quanto valgano veramente le loro vite. Quando montano su un autobus pieno in piena pandemia. Quando tutto chiude ma la fabbrica resta aperta senza se e senza ma, a Codogno. Rendendo, poche settimane dopo, questo nome tristemente famoso nel mondo intero.
E in ultimo, in fondo alla scala sociale, le carceri. Di cui non parla nessuno, nelle quali abbiamo assistito a una vera e propria strage, non solo per il covid. Nel silenzio generale.
Eravamo arrivati al punto di vedere tanti nostri concittadini, persone apparentemente miti, gioire alla morte di bambini affogati col loro barcone, pardon, di piccoli sporchi negri invasori (lo si pensa ma non lo si dice, se non sui social). Ora ci stiamo tutti, su quel barcone.
Chi più chi meno.

Anche se il nostro Maggio ha fatto a meno del vostro coraggio
Se la paura di cambiare vi ha fatto chinare il mento
Se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento
Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti.
[Fabrizio De André, 1973]

Finirà, questa pandemia, e lascerà un’Italia diversa. Con tanta voglia di ballare e abbracciarci di nuovo. E forse anche con una nuova voglia di lottare, per necessità che avevamo dimenticato di avere. Ma di cui possiamo sempre, in qualunque momento, tornare ad essere consapevoli, tutti assieme. Cominciamo da oggi, anche ciascuno per sé, guardando da una finestra questo cielo bigio.
Buon Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, a tutte e tutti. Ora e sempre.

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